ROMA – L’emendamento al comma 5 dell’art.2 è ancora da scrivere. E la minoranza non ha partecipato in direzione al voto sulla relazione di Matteo Renzi, passata all’unanimità, in coerenza con il principio che sulla Costituzione non vale la disciplina di partito. Ma la trattativa sul ddl Boschi resta aperta: il leader Pd rilancia sul modello della legge Tatarella per la scelta dei senatori e Pier Luigi Bersani, che alla riunione ha preferito la festa del Pd di Modena, parla di «un’apertura significativa». Ma sull’esito della riforma pesa anche la scelta del presidente Pietro Grasso al quale il premier manda un nuovo avviso: «Se riaprisse sull’art.2 sarebbe un fatto inaudito».
Chi si aspettava uno show down in direzione resta deluso così come, per i rapporti di forza usciti dal congresso, era scontata la schiacciante maggioranza a favore della proposta di Renzi. Ma d’altra parte l’obiettivo del leader Pd non è mettere all’angolo la sinistra ma portare a casa il risultato della riforma costituzionale. Un altro tassello, per il premier, di un percorso niente affatto scontato prima del suo arrivo al governo: «Un anno e mezzo fa la legislatura era alla fine. Noi abbiamo fatto una mossa ardita, come i giapponesi nella partita del rugby contro il Sudafrica, e c’è stata la svolta».
Dopo giorni altalenanti tra avvicinamenti e allontanamenti sul nodo delle riforme, la direzione si riunisce al buio, senza contatti preventivi per concordare un punto di caduta. Pier Luigi Bersani preferisce non partecipare alla direzione e la minoranza fino all’ultimo avrebbe voluto evitare il voto finale. Ma Renzi vuole mettere nero su bianco gli equilibri del congresso e segnare i confini di un’eventuale accordo. «Se si vuole discutere nel merito va bene, noi cerchiamo il consenso più ampio, ma se dietro si cela un rilancio continuo si sappia che non accettiamo diktat», è la premessa del premier il quale ribadisce che «l’elezione diretta dei futuri senatori non può sussistere» ma che «le soluzioni tecniche, un punto di intesa si può trovare».
Il leader Pd non ha alcuna intenzione di riaprire il «vaso di Pandora» degli emendamenti. Ma per chiudere entro il 15 ottobre la riforma al Senato ha due scogli da superare: la minoranza dem e la decisione del presidente di Palazzo Madama sull’emendabilità dell’art.2. Due partite separate ma che si intrecciano. A Grasso, senza giri di parole, il premier fa sapere che prendere decisioni diverse da quanto votato in doppia lettura conforme «sarebbe un fatto inedito» che spingerebbe i gruppi del Pd a riunirsi alla Camera e al Senato per decidere come reagire alla scelta.
Alla sinistra, invece, pur non cedendo sull’elettività, avanza una nuova ipotesi di mediazione: l’elezione indiretta come quella usata nel ’95 con la legge regionale ispirata da Tatarella. «Siamo ad un passo, non ci facciamo fermare dai dettagli – chiede il premier – ma l’idea che il Pd stia a discutere in una sfibrante dialettica interna sull’ emendamento X o Y è riduttivo e frustrante per nostri militanti e volontari».
La minoranza, da Gianni Cuperlo a Alfredo D’Attorre, alla fine apprezza l’apertura sul ddl Boschi anche se nel corso della riunione restano le distanze su molti temi, dagli effetti del jobs act alla Buona Scuola, dalle priorità per la legge di stabilità fino alla lettura del blairismo, un «disastro» per i bersaniani, un modello di sinistra vincente per Renzi. Ma se le distanze resteranno tali o saranno colmate, almeno sulla riforma costituzionale, si vedrà solo nei prossimi giorni. Bersani è ottimista: «Andiamo alla sostanza: mi pare che Renzi abbia fatto un’apertura significativa».